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Il Lazio punta sull’occupazione in «blue»: per tutelare attività e ricerca legate al mare

Come spesso accade, i numeri parlano da soli: 361 chilometri di costa sul Mar Tirreno, oltre 43 laghi, 18 fiumi e 11 porti marittimi strategici per spostamenti e trasporti commerciali. Eccolo l’identikit della regione Lazio in chiave “Blue Economy”, un sistema che in Italia raggiunge numeri altrettanto preziosi: con 200 mila aziende del settore e un milione di lavoratori che producono circa 47 miliardi di fatturato. Fatti due conti e guardandosi intorno, il Lazio ha scoperto di essere tra le prime regioni a dotarsi istituzionalmente di una legge quadro sulla «Promozione della formazione, occupazione nei settori della Blue economy», proposta recentemente dal consigliere regionale Daniele Ognibene, capogruppo del partito Liberi e Uguali (LeU).

Approvata la legge regionale sulla “Blue Economy” con un investimento da 2 milioni di euro. Un passo avanti per l’Italia, dove l’Economia del mare è formata da 200 mila imprese e un milione di addetti che producono 47 miliardi di euro. Cercasi Piano di investimenti nazionale

 

Ma al di là dei partiti e delle regioni delle quali si parla, è inutile nascondersi: cercare di allargare gli orizzonti di una sostenibilità economica in chiave Blue Economy iniziando dal Lazio, significa puntare ad un piano di investimenti nazionale. In fondo, lo spiega lo stesso Ognibene: «Stiamo parlando di un Paese disegnato da 8.300 chilometri di costa e 645 comuni italiani, sui quasi 8 mila totali, che si affacciano sul mare. E a questi vanno aggiunti più di mille ancora che comprendono fiumi e laghi nel loro territorio». Imprese, enti di formazione e ricerca potrebbero collaborare tra loro per far nascere nuove piccole medie imprese dedicate alla Blue Economy. E se la regione Lazio ha già stanziato 2 milioni di euro dedicati a start up e imprese giovanili che operano in questo settore, si può fare ancora di più.

Un Oceano da 24 miliardi di dollari

Intendiamoci, e sono in molti a saperlo: non si tratta di una passeggiata. E’ vero, 5 milioni di lavoratori in Europa operano nel settore green, e la Bue Economy, affermano gli esperti, entro il 2030 crescerà a ritmi vertiginosi, almeno al doppio rispetto all’economia tradizionale. Ed ancora, non si sa bene come e in che modo, ma qui, ormai, i soliti esperti del settore affermano che l’Oceano, inteso come bacino di potenziali risorse globali, è dato a più di 24 mila miliardi di dollari. Sì, lo accennavamo prima, c’è comunque un “Ma”. E grande quanto l’oceano. Rappresentato dalla pesca intensiva e non regolata e dalla presenza della plastica nei mari. Su quest’ultima, in un recente studio di una Ong britannica, “Environment Investigation Agency”, veniamo a scoprire che entro il 2050 la quantità di plastica potrebbe superare il peso dei pesci.

Se le imprese brancolano nel buio

Che fare, allora? Di sicuro, occorrono progetti marini e oceanici che abbiano benefici ambientali, economici e climatici positivi. Serve molto denaro, certo. E dove non ce n’è, si può fare lo stesso emettendo “Blue bond”. Già quattro anni fa, la Repubblica delle Seychelles, emettendo blue bond era riuscita a raccogliere qualcosa come 15 milioni di dollari per finanziare progetti ambientali. Anche la Banca mondiale, con 10 milioni di dollari raccolti da obbligazioni blu, è riuscita ad attirare l’attenzione del mondo intero sul problema dei mari inquinati dalla plastica. Ma non basta ancora. La vera sfida futura in tema di blue economy è riuscire ad arrivare preparati. Formarsi e studiare: eccolo il segreto. Perché qui, come per ogni altro settore, il vero problema è la carenza di figure professionali preparate: il 40 per cento delle imprese italiane praticamente brancola nel buio quando si tratta di assumere il profilo giusto. Pur essendo l’Italia la terza potenza europea per l’economia blu e leader per il tasso di produttività nell'uso delle risorse marittime.

 

Fonte: corriere.it