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Il mio intervento al workshop Progressive Politics and the Digital Revolution

 

Lunedì ho partecipato al workshop Progressive Politics and the Digital Revolution,  un'occasione di dialogo tra ricercatori, amministratori e dirigenti politici su scala europea. Questi alcuni passaggi del mio intervento: 

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Il tema del digitale assume sempre più centralità nel dibattito legato agli investimenti pubblici, ma raramente si discute dell’impatto che le nuove tecnologie hanno ed avranno sul mondo del lavoro e sulla società.


Partiamo dalla contrapposizione che spesso si legge fra lavoro “umano e analogico” e il lavoro così detto “digitale”. È importante, fin da subito, sottolineare che questa distinzione non esiste. Non esiste un lavoro “digitale e tecnologico” e un “lavoro umano”, esiste solo il lavoro. All’interno di quest’ultimo, dalla sua nascita migliaia di anni fa - quando il primo essere umano è stato ricompensato per una sua azione - sono da sempre coesistite la tecnica, e i suoi strumenti, con la mente e il corpo del lavoratore. 


Queste due componenti, tecnica e corpo, negli anni hanno cambiato i loro rapporti di forza e ad ogni rivoluzione industriale e scoperta scientifica la tecnica è diventata sempre più predominante nel lavoro. Lo possiamo vedere anche in uno dei settori più fisici del mondo del lavoro, quello dell’agricoltura, dove ormai la tecnologia è fondamentale per essere competitivi e assicurarsi dei buoni raccolti. 


Se la tecnica e gli strumenti una volta erano un'estensione del corpo, ora vediamo che questa estensione sta prendendo vita propria. Robot, automatismi, intelligenza artificiale, hanno bisogno del minimo intervento umano nel comandarli. La domanda oggi è: il digitale e la tecnologia dei nostri giorni sono l’estensione di chi? Dei lavoratori o dei proprietari delle nuove tecnologie? Le tecnologie non sono un rischio per il mondo del lavoro e dei lavoratori, ma lo è senza dubbio l’accentramento delle tecnologie nelle mani di pochi.


Le tecnologie sono, ovviamente, una grande opportunità per il mondo del lavoro. Pensare che un lavoro rischioso in una fabbrica d’acciaio può essere svolto da un robot è un successo della razza umana. Pensare che gli automatismi in fabbrica fanno risparmiare tempo e fanno produrre di più è grandioso.


Il problema nasce quando pensiamo che un robot può svolgere il lavoro di cinque operai contemporaneamente. Quindi il robot non è più semplicemente l’estensione di quegli operai, non è più lo strumento come cui la classe operaia può garantirsi minori orari di lavoro e maggiore efficacia nei risultati. Sono piuttosto l’estensione delle aziende, dei datori di lavoro.
La domanda fondamentale quindi è: se la tecnologia sostituirà milioni di lavoratori, cosa dovremo fare per assicurare il benessere di chi ha perso il lavoro?


Una risposta che si imporrà sempre più nel dibattito politico sarà: il “reddito universale”. Una misura che garantirebbe a tutti i cittadini di un paese, in maniera universale ed incondizionata, un reddito di base. L’obiettivo di una politica di questo tipo è quello di assicurare a chiunque una soglia di sussistenza minima, per fronteggiare le spese quotidiane e cercare di diminuire le disparità economico-sociali presenti all’interno di una nazione. Per questo motivo oggi parlare di abolizione del reddito di cittadinanza è un’aberrazione. Le nuove tecnologie si imporranno sempre più nella sostituzione del lavoratore umano. Chi parla di nuove tecnologie e allo stesso tempo sostiene l’eliminazione di strumenti di sostegno è evidente che non vive nel 2022, che non conosce ciò che l’innovazione sta producendo nel mondo del lavoro e non si interroga su cosa succederà nei prossimi anni.


Ma chi pagherà il reddito universale? Uno stato per adottare il reddito universale dovrebbe tassare maggiormente quelle aziende che utilizzano tecnologie che sostituiscono i lavoratori. Se hai un fatturato alto, pochi lavoratori e tante macchine, devi dare allo Stato un po’ di più. Devi pagare, per così dire, le tasse al lavoratore robotico. 


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Parlando di multinazionali, nell’ultimo decennio è evidente che i colossi come Amazon stiano esercitando una forte pressione sui territori e le relative amministrazioni locali italiane. Solo nel Lazio, la società opera con un centro di distribuzione urbano Amazon Fresh a Roma, due centri di distribuzione a Colleferro e a Passo Corese, tre depositi di smistamento situati a Pomezia, Roma Settecamini, Roma Magliana e un nuovo grande centro di distribuzione nel comune di Ardea. 


Il rapporto che c’è fra Amazon e le amministrazioni comunali è di sudditanza da parte di quest’ultime. Amazon può portare lavoro, ricchezza nel territorio, nuove tasse locali e dunque migliorie al territorio. Le amministrazioni locali fanno di tutto pur di soddisfare le richieste del colosso ed Amazon promette meraviglie. Poi arriva però la dura verità. 


Amazon è riuscita nell’intento di trasformare i lavoratori in robot. Se non ci sono ancora tecnologie adatte a sostituire i lavoratori umani basta trasformare quest’ultimi in lavoratori “calcolabili” attraverso le tecnologie come il contapassi e il gps. Una volta insediata Amazon assume i lavoratori con contratti anch’essi calcolabili (a tempo determinato), e scarica il rischio delle consegne delle merci sulle aziende del territorio. Di fronte a questo Golia, i piccoli David delle amministrazioni comunali possono pretendere dei contratti a tempo indeterminato per i lavoratori. A nuove concessioni ad Amazon però devono corrispondere nuove tutele ai lavoratori. Ma in sostanza Amazon non si impegna a garantire livelli occupazionali stabili, bensì si lamenta che dopo 3 contratti a tempo determinato non può farne il quarto poiché per legge dovrebbe assumere a tempo indeterminato. Così scatta il licenziamento. Tutto ciò è inaccettabile. Non possiamo far diventare l’Italia un grande polo logistico, per giunta nelle mani di una sola grande multinazionale.


Amazon è colpevole anche di un altro dei grandi mali che affligge i nostri tempi: prende, salva ed utilizza i nostri dati personali. Siamo in un epoca in cui non possediamo più la nostra privacy. Amazon (ma ce ne sono tante altre) ci ascolta con Alexa, sa quanto è grande casa nostra, sa dove viviamo, chi siamo, il nostro numero di telefono, quanti familiari abbiamo, cosa vediamo in tv e la cosa più sorprendente è che sembra che alle donne e agli uomini del terzo millennio semplicemente non interessi. “Va bene che sarà mai se un’azienda utilizza i miei dati personali per studi di settore e per rivenderli?”. 


La privacy è fondamentale per stabilire anche che tipo di rapporto c’è tra i consumatori e i venditori produttori. Tu venditore devi tutelare me consumatore. Perché ci arrabbiamo se uno sconosciuto ci fotografa per strada ma siamo indifferenti a tutto ciò che ruota intorno, per esempio, a Google? Perché è praticamente impossibile cercare una prodotto sul web senza essere travolto poi dalle pubblicità? 


Lo Stato Italiano, qualche anno fa, ha sostanzialmente autorizzato Google nella mappatura dei siti culturali e archeologici italiani. Lo ha fatto perché Google ha avanzato una proposta senza oneri economici a carico dello Stato. Ma se un servizio è gratis lo è perché il prodotto siamo noi. Di fronte a questa deriva che impoverisce i territori ed i lavoratori, che manipola i nostri dati per poi utilizzarli contro di noi, possiamo rispondere spegnendo internet? Abbandonando totalmente le tecnologie? Possiamo resistere all’urto di Amazon acquistando esclusivamente dal commerciante sotto casa? 


Ovvio che privilegiare la vendita di prodotti che provengono dal territorio è una buona pratica, che permette di sostenere il piccolo commercio, ma è come provare a “fermare il vento con le mani”. 


Mi sembra evidente che per quanto riguarda il commercio online non si possa competere contro colossi come Amazon o Alibaba con piccole Start Up, che pure hanno il merito di provare a resistere ad un mercato globale sempre più cinico. Oggi in Europa si deve imporre un dibattito su come i 27 Stati Membri si dotino di uno strumento continentale che possa aiutare il nostro famigerato sistema produttivo. L’Europa è il continente che consuma di più ma che produce di meno. Che non ha una propria piattaforma di commercio. L’UE dovrebbe mettere al centro questo tema. Come far nascere una struttura che possa garantire livelli occupazionali stabili, difesa dei dati e tutele delle aziende che ne usufruiscono. Quando l’Unione Europea ha impostato politiche comunitarie è sempre riuscita ad arrivare a risultati ottimali. Oggi diventa più urgente iniziare questo processo. La Guerra Russo- Ucraina è stato un grande acceleratore di processi sociali. Le disuguaglianze stanno crescendo sempre più. Non voglio inoltrarmi su un altro terreno di discussione, ma stiamo assistendo alla fine della globalizzazione così come l’abbiamo vista ed immaginata fino a ieri.
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Con l’esplosione della pandemia da Covid abbiamo assistito all’uso diffuso dello smart working, all’utilizzo su vastissima scala delle piattaforme web. Siamo stati catapultati nella società che ci ha avvicinato il lontano ma allo stesso tempo ci ha allontanato il vicino. Io ritengo che un equilibrio tra le due cose sia la strada migliore. Laddove lo strumento del lavoro agile sia possibile va stimolato e ampliato. Smart Working vuol dire meno spostamenti per arrivare sui luoghi di lavoro, quindi meno impatto in termini di inquinamento. Vuol dire anche più tempo per le relazioni. Le relazioni sono quelle che l’economista Becchetti definisce “terre rare”. Che vanno coltivate con pazienza. “Terre rare” relazionali, sono quei rapporti che per essere costruiti hanno bisogno di tempo. Un’economia generativa fondata sulle relazioni. Che sono sempre le stesse: genitori-figli, amici, amori. Per tutto questo c’è bisogno di tempo. Quindi ben venga una riduzione in termini economici del proprio stipendio se si ha più tempo. Ma non basta di certo sostenere la vecchia idea della “decrescita” felice. Anche perché l’Italia è uno dei pochi paesi europei che non ha una legge sul salario minimo e che ha un gigantesco problema sul lavoro povero.


Abbiamo però sempre più bisogno di costruire luoghi del sapere, della conoscenza che sappiano tenere insieme socialità e digitale. Per questo vanno create strutture fisiche in cui si possano fare una molteplicità di esperienze, penso a delle case del popolo in cui leggere, guardare un film o uno spettacolo teatrale, discutere ma che siano interconnesse tra loro, in Italia e nel mondo. Un modo di utilizzare la tecnologia ma non perdendo la fisicità.


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La nostra società non contempla più il rischio. Il rischio è un elemento fondamentale sia nell’impresa che nella creatività. L’algoritmo oggi indica la strada certa. Ma nella creatività, per esempio, non può esistere una strada certa. Horkheimer e Adorno quando analizzarono l’industria culturale si resero immediatamente conto che la cultura era ridotta a pure merce di scambio e che il cinema e la radio portavano lo spettatore ad identificarsi con una realtà ridotta a una serie di personaggi stereotipati che avrebbe condotto all’atrofia dell’immaginazione.  
Dalla scuola di Francoforte ad oggi sono passati molti anni e la situazione è di gran lunga peggiorata. Le piattaforme audiovisive come Netflix stanno contribuendo ancor più prepotentemente alla fine della creatività. Gli algoritmi che utilizzano portano a creazione di nuovi prodotti solo sulla base delle opere che più hanno riscosso successo. Siamo di fronte ad una omologazione culturale e creativa imbarazzante. Allo spettatore vengono sostanzialmente proposti contenuti simili, ma tutto ciò sta tagliando fuori dal mercato sceneggiatori e registi che non vogliono seguire un format. Netflix per un documentario chiede che vengano seguiti dei rigidi protocolli che non si conciliano assolutamente con la creatività. Mi verrebbe da dire che se Netflix fosse esistito negli anni passati non avremmo mai avuto Kubrick, Fellini o Pasolini.


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I social network sono stati uno strumento potentissimo per far veicolare informazioni, hanno di fatto soppiantato tutti gli antichi strumenti di comunicazione. I giornali stessi vivono un’epoca di grande fatica. Una parte delle responsabilità le hanno anche i vecchi canali di comunicazione, spesso rigidi e pesantemente influenzati dalla politica. Però mi chiedo, si può lasciare un potere così forte alla sola etica dell’amministratore di Facebook o Twitter? Avremmo mai concesso così tante possibilità di manipolazione al nostro datore di lavoro? Il ruolo dello Stato diventerà centrale anche come regolatore dei diritti degli utenti. Alla politica spetta questo ruolo, a noi tutti invece il diritto-dovere di riscoprire la fisicità. Non si può vivere di solo digitale. Abbiamo oggi, più di ieri, il dovere di far riscoprire il principio di fisicità ai più giovani. Solo intessendo relazioni corpo a corpo potremmo poi maneggiare con cura tutti gli strumenti digitali. 

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La politica, quella italiana sicuramente, ma temo anche Europea, sottovaluta molto il tema del digitale. Non affronta questo settore con un approccio olistico, ma lo declina spesso in maniera settoriale. O ne esalta le opportunità oppure guarda soltanto ai risvolti negativi.


Dovremmo invece ripartire dai giovani, impegnando le istituzioni formative a ripartire dagli strumenti del sapere scientifico e umanistico.


Non serve insegnare fin da bambino l’uso delle tecnologie moderne. Bisogna invece puntare sulla conoscenza della storia, delle culture dei paesi, della geografia. Quando si possiedono conoscenze umanistiche profonde si avrà più facilità a dominare il cavallo imbizzarrito delle nuove tecnologie.


C’è bisogno in questo senso di una visione globale. Una nuova visione deve pensare al digitale come uno strumento per ridurre le disuguaglianze, per permettere un accesso alla formazione e al sapere più diffuso.


Ma tutto ciò non può essere fatto a discapito della socialità, del territorio, dell’individuo nella sua relazione con la società.